SISTINA 57
IL PROGETTO
Cultura

L’arte di ignorare il giudizio degli altri, libro di Arthur Schopenhauer

E’ un libretto di poco più di 100 pagine, “L’arte di ignorare il giudizio degli altri” di Arthur Schopenhauer, un capitolo di una riflessione più vasta, molto utile di questi tempi, se non altro per ridimensionare quei comportamenti che hanno sostanzialmente messo da parte i valori a favore di una cura spasmodica per l’immagine e le apparenze.


Nato a Danzica, ma giramondo come altri grandi protagonisti della storia e della filosofia, Schopenhauer è considerato il filosofo del pessimismo (non a caso amò la poetica di Giacomo Leopardi) ed ebbe molti “figli degeneri”, fra i quali Nietzsche.
Perché rileggere quelle pagine assai lontane nel tempo di un filosofo che certamente fu conquistato dall’Italia, tanto da vederne con favore il raggiungimento dell’unità, ma che è stato giudicato come un misantropo poco desideroso di confrontarsi con la politica?
L’esordio del manoscritto può aiutarci: “a causa di una particolare debolezza della natura umana si attribuisce, in genere, soverchia importanza a ciò che uno rappresenta, vale a dire a ciò che noi siamo nell’opinione altrui; anche se, per poco che riflettessimo, comprenderemmo che ciò non è, in sé, rilevante ai fini della nostra felicità.”


Dunque il problema è semplice: vivere della considerazione degli altri e non per quello che si è veramente. Applicato all’oggi vorrebbe forse voler dire alzare il sipario sulla rappresentazione, ad esempio della politica, con lo sforzo evidente di colpire l’immaginario altrui, a scapito della riflessione sulla sfera di valori e di scelte che andrebbero ricercati per realizzare una società migliore. In questo caso, insomma, si potrebbe dire che il restare imprigionati in una cultura dell’emergenza, che è l’altra faccia della occupazione del potere, può dipendere anche dal fatto di aver preferito la vanità dei comportamenti, i giudizi degli altri, alla cura dei contenuti e delle coerenze con essi.


Il filosofo, nella sua denuncia dei limiti della vanità che dipende dalle opinioni degli altri, in qualche modo esagera: “se il condurre una esistenza appartata esercita una influenza oltremodo benefica sulla nostra serenità di spirito, ciò dipende, in gran parte, dal fatto che essa ci sottrae ad una vita vissuta continuamente sotto gli occhi degli altri, e, conseguentemente, al dover tenere continuamente conto della loro eventuale opinione, e, quindi ci restituisce a noi stessi.”


L’esagerazione sta nella epoca in cui è vissuto il filosofo, epoca in cui le interdipendenze non erano così strette come oggi, la comunicazione incessante e quasi persecutoria per ogni spirito di riservatezza, la globalizzazione capace di suscitare “complotti”, ma al tempo stesso concentrare in poche mani i poteri, esautorando la centralità della persona e affannarsi a ricercare la considerazione altrui. Del resto se guardiamo al mondo dei social come negare che un influencer fonda sulla opinione degli altri il proprio reddito da lavoro? Come non osservare che i like sono terreno di caccia di chi si sente vitale solo se accumula quintali di “mi piace”?
Ma sarebbe ancora possibile “appartarsi” per ritrovare se stessi? In realtà visto come vanno oggi le cose sarebbe più utile ritrovare altri riferimenti di valore: esperienze comunitarie nelle quali il singolo non ha necessità di primeggiare, ma di partecipare e cooperare; la solidarietà, nella quale far emergere la concretezza del fare e la capacità di dare senza dover considerare questo atteggiamento come il terminale di uno scambio. E si potrebbe continuare.


Nell’umanesimo socialista, ad esempio, questa dimensione del fare collettivo con obiettivi comuni ed idealità condivise, oggi fin troppo dimenticato, era presente e ha segnato un percorso di grandi battaglie ideali, politiche e sociali non di rado vincenti.
E’ a questo punto interessante affrontare uno degli argomenti centrali della disanima del libro che riguarda il tema dell’onore.

Schopenhauer ne descrive diffusamente i vizi, riassunti in un vero e proprio codice di onore: “chi è libero da pregiudizi capisce al primo sguardo che questo straordinario codice di onore, barbarico e ridicolo, non è un prodotto della natura umana né di una sana visione dei rapporti fra gli uomini…”. L’onore di questi tempi se la passa piuttosto male.

Allora l’epilogo, inglorioso, era per il filosofo, un duello. Ai nostri tempi non ci sono soluzioni cruente, bensì ciniche: l’odio politico ed il giustizialismo sono indubbiamente fra queste. Oggi potremmo riferire queste considerazioni al costume politico secondo il quale è fondamentale far prevalere i propri assunti, troppo spesso sintetizzati solo dagli slogan, sulla necessità di comprendere le ragioni degli altri, discutere e dialogare. In un certo senso questa “ottusità” è necessitata dal fatto che il potere di affermazione e decisione poggia non più su una rete di rapporti “democratici”, ma sull’opportunismo e sul trasformismo, che rischiano di allontanare dalla realtà che vive la gente.


Può aiutare allora l’ultimo passo di questo cammino nella “considerazione” che è la differenza che il filosofo propone fra azione ed opere. La prima, più leggibile, le seconde più personali e quindi di difficile decifrazione. Oggi servirebbero più le seconde rispetto alla prima. Le opere hanno bisogno di una preliminare ricerca, dello studio, del sapere, della condivisione. Hanno bisogno non di ambizioni singole, ma di progetti partecipati.

Quello che probabilmente nel nostro tempo è stato fin troppo svalutato. Viene allora da pensare che al di là delle convinzioni di Schopenhauer, non serva anche per affrontare un futuro, forse fra i più complicati per il genere umano, il ritorno alla teoria, alla lettura della storia come lezione da recuperare, alla riconsiderazione dei valori come parte integrante di una identità politica o sociale. Interrogativi che purtroppo sembrano non andare più di moda.



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