SISTINA 57
IL PROGETTO
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Perché è difficile dar vita ad un sistema fiscale europeo

Il Recovery Plan, incentrato sul cosiddetto Next Generation Eu, ha introdotto nel panorama europeo due elementi di grande rilievo finanziario che dovrebbero avere riflessi sul piano strettamente tributario.

Il primo è il venir meno nell’Unione del divieto di ricorrere all’emissione di titoli per finanziare la spesa pubblica, con la conseguente possibilità, valida fino al 31 dicembre 2024, di consentire investimenti e riforme con la raccolta di svariati miliardi sul mercato. Ciò significa che il varo dell’Ngeu e la conseguente, seppur temporanea riforma del Patto di stabilità e crescita (Psc) hanno cambiato le prospettive della finanza dell’Ue segnando, almeno per il momento, la fine della politica di austerità e consentendo, in particolare, di finanziare il grande programma di investimenti destinati a rilanciare l’economia europea dopo la pandemia.

Il secondo elemento – su cui intendo qui soffermarmi – è che si è aperta la strada, almeno in teoria, per avviare progressivamente un aumento delle “risorse proprie” dell’Ue che abbia il fine specifico di concorrere a garantire entro il 2024, non solo il pagamento degli interessi, ma anche, a partire dal 2028, il rimborso dei fondi presi a prestito dalla Commissione sul mercato. Il finanziamento del bilancio dell’Unione con nuove risorse proprie fiscali è, perciò, divenuto una delle questioni di fondo da risolvere per uscire dalla situazione di stallo e avviare il processo destinato a rappresentare il secondo pilastro, insieme all’unione monetaria, di un assetto federale dell’Unione.

È da come tale questione sarà risolta che dipenderà la risposta da dare alla domanda, che tutti ci facciamo da tempo, se siamo maturi i tempi per costruire un organico sistema fiscale europeo. E mi pare chiaro che, allo stato, i prelievi riguardanti l’ambiente devono essere il primo essenziale strumento della lotta ai cambiamenti climatici che l’Unione ha inteso intraprendere col fine specifico di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 e di garantire una transizione ecologica efficiente e socialmente giusta ammontante al 2-3% del Pil mondiale.

Risale, infatti, al 14 luglio 2021 la proposta di Direttiva del Consiglio che, sulla spinta della Comunicazione della Commissione cosiddetta “Pronti per il 55%” ha per oggetto la ristrutturazione del quadro dell’Unione per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità finalizzata alla riduzione delle emissioni di CO2. Il fine di tale proposta è quello di realizzare al meglio l’obiettivo climatico dell’Ue per il 2030 lungo il cammino verso la neutralità climatica.

Da un’approssimativa lettura di detta proposta e da altre successive Comunicazioni della Commissione risulta che la prima risorsa propria dell’Unione dovrà essere fornita dalle entrate derivanti dal Border carbon adjustment mechanism che prevede l’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera di natura doganale, diretto a evitare carbon leakage e perdita della competitività della produzione europea legati al carbon pricing applicato all’interno dell’Unione.

Il vantaggio dell’introduzione di tale diritto è di essere un vero e proprio diritto doganale, applicabile perciò secondo la procedura legislativa ordinaria indicata dal Trattato per il funzionamento dell’Ue (in particolare, gli artt. 3 e 201, secondo comma Tfue). Il suo gettoti rappresenta, quindi, una risorsa propria attribuita direttamente al bilancio dell’Unione, che può essere accompagnata dall’introduzione da parte dei Paesi membri, di un carbon price affluente al loro bilancio.

La seconda risorsa propria è legata all’obiettivo di raggiungere, entro il 2050, la neutralità quanto alle emissioni di carbonio. Com’è noto, lo strumento di controllo delle emissioni è rappresentato nell’Unione dall’Emission trading system (Ets), che per la nuova Direttiva del Consiglio dovrà essere esteso, in parallelo al sistema già esistente, anche al trasporto e al riscaldamento con un meccanismo in forza del quale l’acquisto dei permessi è posto a carico dei produttori e degli importatori, che poi trasferiranno il costo in avanti sui consumatori finali, famiglie e imprese attraverso un meccanismo del tutto simile a una carbon tax. Si è ipotizzato che tutti i permessi saranno venduti all’asta e che una quota pari al 20% sarà destinata al bilancio europeo, con il risultato che le entrate derivanti da questa nuova risorsa ammonterebbero a 45 miliardi di euro, tutti destinati a finanziare la lotta ai cambiamenti climatici promossa dall’Unione.

Queste entrate sarebbero, quindi, una risorsa propria dell’Unione che non colpisce – come avverrebbe se avessero, invece, natura di tributo – una manifestazione di ricchezza in funzione del dovere di solidarietà del soggetto obbligato, ma remunera solo l’attribuzione della titolarità di un diritto suscettibile di essere collocato sul mercato. Ciò che è importante è che, non avendo esse natura tributaria, la loro disciplina non è assoggettata alla regola dell’unanimità.

A queste due risorse proprie dell’Unione va poi aggiunta la cosiddetta plastic tax, almeno quella definita dalla Decisione del Consiglio n. 220/2053/Eu Euratom, la cui istituzione, al pari delle precedenti risorse proprie, non dovrebbe avere – a dispetto della sua denominazione – natura tributaria e, quindi, non richiederebbe l’unanimità ex art. 311 Tue. Si ritiene, infatti, che essa costituisce un mero criterio di commisurazione di trasferimenti finanziari aggiuntivi dovuti dagli Stati membri nei confronti dell’Ue, che non richiede agli Stati stessi di introdurre eco-tributi sulla plastica riciclata e lascia loro la libertà di individuare i mezzi per far fronte al suo pagamento. Ma anche se la si considerasse un vero e proprio prelievo tributario con finalità ambientale ed energetica, ciò non significherebbe che per la sua istituzione sia necessario il consenso unanime dei Paesi membri. Attraverso la nota formula “chi inquina paga” gli artt. 191, 192 comma 2 e 194 comma 3 Tfde sanciscono in modo esplicito il dovere dell’inquinatore di contribuire alle spese di protezione dell’ambiente con il pagamento di uno specifico tributo, la plastic tax appunto.

Questa ricostruzione fondata sul suddetto principio è condivisa da buona parte della dottrina, sul presupposto anche che la competenza dell’Unione in materia ambientale ha la sua base giuridica nel principio di sussidiarietà codificato dall’art. 5 del Tue, e cioè nel principio per il quale le istituzioni europee hanno pieni poteri di intervento qualora l’azione degli Stati membri risulti insufficiente al raggiungimento degli scopi del Trattato.

Da ciò deriva quanto segue. In via generale, deve restare ferma la regola che sono le comunità nazionali a istituire i tributi secondo i meccanismi propri di ciascuno Stato, e che l’Unione europea ha solo il potere di richiedere l’introduzione di tributi in materie collegate alle sue funzioni, ma non di imporli. Se, però, tali tributi sono ambientali, tale regola non trova applicazione perché i richiamati artt. 119 e ss. Tfue attribuiscono una delega in bianco all’Unione che sfugge, appunto, alla suddetta regola generale. Tutto ciò, fermo restando che tale spostamento verso l’alto della soggettività tributaria attiva deve essere anche coerente ai princìpi costituzionali fondamentali degli Stati membri in cui risiedono i contribuenti; princìpi che devono considerarsi dei veri e propri controlimiti alla stregua dell’orientamento delle Corti costituzionali dei Paesi membri.

In conclusione, deve prendersi atto che esiste la possibilità di aumentare le risorse proprie destinate a finanziare l’attuazione del Next Generation Eu senza dover procedere a una riforma dei Trattati e, quindi, con il solo voto a maggioranza del Consiglio e del Parlamento europeo. Allo stato, però, ciò può avvenire solo per i prelievi non aventi natura tributaria – come sono i diritti compensativi alla frontiera, le plastic tax e l’Emission trading system (Ets) – la cui istituzione non richiede il voto unanime dei Paesi membri e per quei prelievi ambientali di cui si è detto i quali, pur avendo natura tributaria, sono previsti espressamente dai richiamati artt. 119 e ss. Tfue.

In questa situazione è, perciò, molto difficile puntare, d’emblée, sulla creazione di un organico, robusto sistema fiscale europeo se per la materia tributaria non si sostituisce la regola del voto all’unanimità con quella del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio e nel Parlamento europeo e non si abbandona, una volta per tutte, l’attuale assetto dell’eurozona basato sulla centralizzazione della politica monetaria e sulla decentralizzazione delle politiche fiscali.

Il Next Generation Eu, le proposte di Direttiva e le recenti dichiarazioni della presidente Ursula von der Leyen a favore di un fisco europeo rappresentano, dunque, solo un seppur timido segnale della volontà di muoversi nella direzione di munire l’Unione di una propria, autonoma capacità fiscale. Perché ciò avvenga è però necessario che tale capacità sia separata dalle politiche di bilancio dei singoli Stati, sia accompagnata dalla dotazione di un proprio budget e sia l’espressione di un effettivo potere dell’Unione di istituire democraticamente tributi propri da utilizzare anche in funzione anticiclica. È questa l’unica via percorribile se vogliamo che il criterio di legittimazione della tassazione sia – come dovrebbe essere – la rappresentatività democratica di coloro che hanno il potere di imporla. Ma allo stato si è visto che così non è.

Essendo questa la situazione e non sussistendo la possibilità di avere un’Europa a due velocità, la risposta alla domanda se sono maturi i tempi per avere un organico sistema fiscale europeo difficilmente può essere positiva. L’unico dato confortante è che l’obiettivo di realizzare una fiscal union traspare sempre più da quelle recenti proposte di Direttiva e da quelle interpretazioni della Commissione dirette a potenziare quei pochi tributi e prelievi obbligatori di cui ho detto, già adesso istituiti e istituibili ai sensi dei vigenti Trattati.

La strada da percorrere verso un reale, consistente rafforzamento delle politiche fiscali in senso stretto dell’Unione sarà, quindi, lunga e ostacolata dal riproporsi di sovranismi e nazionalismi. La novità portata dalla pandemia sta nel fatto, eccezionale, che essa ha colpito la generalità degli Stati e, quindi, impone di rispondere ai suoi effetti devastanti attraverso nuove fonti finanziarie sovranazionali anche fiscali di ampio raggio; fonti che dovrebbero aggiungersi all’incremento dei trasferimenti degli Stati a favore del bilancio europeo e, perciò, dovrebbero consentire sia all’Ue che agli Stati membri di fare la propria parte avendo i mezzi per realizzare le competenze assegnate. Lo ripeto. Finché dovrà applicarsi con pienezza il principio dell’unanimità, l’esigenza di accrescere il potere fiscale dell’Unione non sarà, però, soddisfatta pienamente. Porterà solo in superficie la frattura, finora latente, tra chi vuole che il potere rimanga pienamente agli Stati membri – e quindi tende a essere, nell’attuale contingenza, contrario al finanziamento del Recovery Plan attraverso uno strumento fiscale europeo – e chi, invece, ritiene che sia necessario trasferire almeno una parte del potere fiscale alle istituzioni sovranazionali, magari ricorrendo, come extrema ratio alla formula dell’Ue a due velocità.

Hanno perciò ragione coloro che sostengono che, se si crede in uno sviluppo dell’Unione in senso federale, ci si deve necessariamente muovere in quest’ultimo senso, e cioè nel senso del rafforzamento dell’autonomo potere fiscale dell’Unione, puntando quantomeno su un maggior coordinamento verticale tra i modelli fiscali nazionali e quello europeo, però, da rafforzare.

(dal Sole 24 Ore del 4 febbraio 2022)



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