SISTINA 57
IL PROGETTO
Economia

“Porte aperte. L’economia mondiale dal 1945 ad oggi”, libro di Thomas W. Zeiler

Il lungo saggio di Thomas W. Zeiler sulla evoluzione della economia mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi ha il pregio di documentare, con una puntuale ricchezza di dati e situazioni, l’intreccio fra l’esigenza di garantire sicurezza e condizioni di pace e il ruolo degli scambi economici e finanziari per garantire un mondo con le “porte aperte”.


Open door è una vera e propria dottrina nata negli Stati Uniti e voluta in particolare dal Segretario di Stato americano Cordell Hull: “a suo avviso un sistema commerciale improntato a quella dottrina e basato su trattative multilaterali in materia di barriere commerciali ed etica di mercato, avrebbe impedito di precipitare nell’irreggimentazione e di arrivare alla soppressione dei diritti umani e, come si è visto, a preparativi di guerra ed atteggiamenti provocatori nei confronti di altre nazioni”.


In realtà la politica open door è la pietra miliare su cui la potenza statunitense impone le sue regole sia nei confronti del declinante e sofferente impero britannico, sia nei riguardi dell’Europa e del Giappone dissanguati dalla guerra, sia in prospettiva nell’allargamento del liberismo di mercato nelle altre aree del mondo.


Di certo, come il libro documenta, l’economia americana e il flusso di risorse verso i Paesi usciti stremati dalla guerra pose le basi per una lunga stagione di sviluppo. E al tempo stesso costituì uno strumento per competere nella cosiddetta guerra fredda. Bretton Woods, il dollaro come moneta centrale del sistema monetario, i primi accordi del Gatt sul commercio internazionale, vengono trattati nel libro come altrettanti mattoni di un sistema mondiale che ha accompagnato la crescita mondiale fino alle grandi crisi e soprattutto alle soglie della globalizzazione e della caduta del muro di Berlino.


Anche il piano Marshall entra in questo disegno: “di per sé il piano Marshall non risolse la crisi economica dell’Europa occidentale, né riuscì a rimettere subito in moto l’economia mondiale rendendo possibili gli scambi commerciali, ma contribuì di fatto a gettare le basi della rinascita della libera impresa nei cinque anni di applicazione del programma ultimato nel 1952. Gli aiuti, nell’ordine di 13 miliardi di dollari, diedero agli europei le risorse per promuovere la produzione, limitare le strozzature nella distribuzione, riacquistare fiducia nelle loro istituzioni economiche. Senza dubbio contribuirono all’ulteriore divisione dell’Europa, in particolare per quanto riguarda le nazioni del blocco sovietico che pur vedendosi offrire gli aiuti li rifiutarono. Stimolando la ripresa il piano Marshall riuniva anche il mondo capitalista in una cornice di scambi integrata e orientata al mercato che teneva in vita alcuni elementi di globalizzazione”.


Zeiler inoltre collega questo intervento, parte di una strategia, agli aiuti messi in campo nel versante asiatico: “Washington era determinata a mantenere entrambe le regioni aperte agli interessi americani e alla realizzazione dell’idea di economia di mercato”.
Allo stesso modo, in un mondo diviso in due, l’Urss si muoveva in parallelo specialmente nella direzione dei Paesi emergenti: “l’Urss offriva una alternativa diceva, Chruscev, alla subordinazione all’Occidente, generata da i monopoli capitalistici esteri e a una industrializzazione stentata. I capitalisti vedevano i Paesi del terzo mondo come semplici taglialegna e non come nazioni moderne e dinamiche. Al contrario se guidati dall’Urss questi Paesi sarebbero diventati indipendenti…dando così inizio ad una vita migliore…”


Ovviamente lo sviluppo del commercio mondiale non fu lineare e si trovò ad affrontare diversi ostacoli. Oggi ci si meraviglia del fatto che di fronte alla guerra in Ucraina diversi Paesi nel mondo hanno preferito rimanere “non allineati”. Ma come il libro di Zeiler sottolinea, questo atteggiamento ha matrici assai più antiche sia per quanto riguarda l’emergere di nazioni come Egitto, India, Jugoslavia che si sottraggono ad etichette troppo stringenti di parte, sia per quanto riguarda il commercio mondiale: “poiché il Gatt non affrontava nel modo dovuto le esigenze dello sviluppo, nazioni emergenti come la Corea del Sud, il Messico, la Giamaica e l’Argentina, si rifiutarono di entrare e farne parte”. Nacque di conseguenza il Gruppo dei 77: “divenne il blocco permanente volto a rappresentare gli interessi economici del sud del mondo”.


Il libro ripercorre naturalmente le varie crisi del secolo scorso, ma soprattutto le tappe che hanno portato al protagonismo di nuovi giganti mondiali: Cina e India su tutte, passando per la rinascita delle economie che allora furono etichettate come le “tigri asiatiche”. E rimane il collegamento fra l’affermazione e la difesa di un modello economico che comunque vede il suo perno centrale nella economia e nella finanza Usa da un lato, e le vicende geopolitiche che stavano inevitabilmente logorando quel modello. Particolarmente interessante è l’analisi di quanto avvenuto nell’Africa post coloniale: “malgrado la fine del colonialismo, dagli inizi degli anni ottanta gran parte del continente africano vacillava sull’orlo del tracollo finanziario. Varie le cause, e note, di questa estrema difficoltà che andava dalla condizioni poste dalle economia più sviluppate a problemi di equilibrio politico e di corruzione interna. La conclusione è stata che “nel 1995 il prodotto nazionale lordo pro capite dell’Africa subsahariana era di 50 volte inferiore alle economia dell’Occidente…, a metà degli anni novanta inoltre, con un tasso di analfabetismo superiore al 40 per cento, era anche difficile trovare una forza lavoro istruita”.


“L’Africa costituisce un ottimo esempio dell’iniquo sistema di scambio a cui il sud è stato costretto”. Un esempio che non poteva passare inosservato soprattutto in Paesi come la Cina, a caccia di materie prime di cui il Continente africano abbonda.
Cina ed India occupano in questo scenario un posto sempre più di primo piano: “le riforme di decentramento del potere di Deng Xiaoping fecero da stimolo a questa crescita…” a partir dalla agricoltura, per passare alla industria leggera ed al commercio, questo processo di apertura al mercato divenne una spinta potente per rivoluzionare l’economia cinese e spingerla verso ambizioni di egemonia mondiale che in questo momento sono più che mai un’incognita delle relazioni fra grandi potenze. Non a caso, la Cina pare essere erede di quella strategia che vuole affermare la multipolarità di rapporti internazionali sui quali gli Stati Uniti fondarono la loro egemonia dopo il 1945.

E non è per caso che nell’ultimo periodo dominato dalla grande crisi del 2008 e dalla pandemia, tutto pare essere rimesso in discussione, anche la teoria delle porte aperte, a seguito di risorgenti protezionismi perfino negli Usa, vedi Trump, e dei nazionalismi in varie parti del mondo con varianti di tipo autocratico e autoritario. Forse emerge poco uno dei fattori oggi destabilizzanti degli equilibri mondiali: lo strapotere della finanza che si impadronisce di ogni opportunità a partire da quella “ecologica”, non risponde a nessun potere statuale di fatto, agisce in una logica di mutuo soccorso con i grandi potentati economici. Un fenomeno che ha prodotto certamente la circolazione di investimenti e conoscenze, ma anche diseguaglianze e sfruttamento in maniera spesso eclatante. Occorrerebbe insomma, anche per trarre qualche lezione da questo libro, restituire centralità al lavoro ed alla dignità delle persone. Un percorso di “porte aperte” diverso, ma certamente assai più funzionale ad uno sviluppo che come si intuì agli inizi, poteva allontanare il mondo dai pericoli delle guerre e delle sopraffazioni.



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