SISTINA 57
IL PROGETTO
Società

The Great Resignation: perché in così tanti lasciano il “posto” di lavoro?

Rivoluzione industriale, passaggio da società rurale a società industriale, shock energetico, trasformazione verso la società dei servizi.
Fino a qualche anno fa il dibattito sul lavoro del futuro era incentrato su capisaldi che oggi non ci sono più, come il “posto fisso”, e il futuro del lavoro era ipotizzato in nuove occupazioni caratterizzate o da forte preparazione o da bassa professionalità. Nel primo caso ci si riferiva in particolar modo all’incidenza che le nuove tecnologie avrebbero avuto sulla scelta del personale da utilizzare, nel secondo caso ad attività lavorative con una durata limitata nel tempo, in attesa di occupazioni più soddisfacenti soprattutto dal punto di vista economico.
La scala di priorità che accompagnava quel modo di pensare nel corso degli ultimi due anni è stata sostituita da un’altra, in controtendenza con il passato, quando le preoccupazioni per il futuro condizionavano e “ancoravano” le persone alle sicurezze, soprattutto lavorative.

In questa lunga fase di incertezza per il futuro, dovuta soprattutto dalla pandemia, stiamo assistendo da tempo a un fenomeno importante, evidenziato nel Great Resignation Report (Rapporto sulle grandi dimissioni) della McKinsey, relativo all’alto numero di occupati che in questi ultimi due anni ha lasciato volontariamente il lavoro, un fenomeno che negli Stati Uniti ha riguardato un terzo circa degli occupati, e sicuramente in crescita. Il fenomeno della Great Resignation ha riguardato in misura minore anche il nostro paese, dove le dimissioni volontarie sono state nel periodo osservato del 5% e le ipotesi sul futuro sembrano essere contrastanti: stando ai recenti dati del Censis, il fenomeno dovrebbe regredire, mentre da altre parti le previsioni vedono il fenomeno in crescita.

Sicuramente, come ricordato prima, la pandemia ha giocato un ruolo importante nel favorire questa scelta, ma probabilmente non è stato il solo fattore scatenante: negli Stati Uniti negli ultimi due anni si sono persi 20 milioni di posti di lavoro, ma risultano ancora scoperti 10 milioni di possibili occupazioni che stentano a ritrovare copertura. L’avvento repentino della modalità lavorativa in “smart working” ha fatto (ri)scoprire ai più aspetti non conosciuti o dimenticati della vita oltre il lavoro, aspetti che hanno riconquistato posizioni su posizioni nella scala dei valori dell’uomo. Il passaggio dal “vivere per lavorare” al “lavorare per vivere” sta determinando così un cambiamento nella popolazione attiva dei paesi industrializzati, impegnata in gran parte in una sorta di riconversione verso quelle attività lavorative che lasciano più spazio al tempo del “non lavoro”, a tal punto da mettere anche in secondo piano la gratificazione economica.

Di fatto stiamo assistendo a una rivoluzione sociale, oltre che economica, che vede protagoniste soprattutto i più giovani: la voglia di lavorare in una azienda più “green”, barattare più tempo libero a disposizione anche a costo di una retribuzione minore, l’insoddisfazione o la mancanza di stimoli, sono tutti elementi che hanno portato milioni di persone nel mondo a lasciare il lavoro, e negli Stati Uniti, uno studio effettuato da Personal Capital e The Harris Poll, riporta che due terzi degli americani intervistati sono desiderosi di cambiare lavoro, e tra i più giovani tale percentuale arriva al 91%.

Certo, alcuni di quelli che hanno lasciato il lavoro lo hanno fatto consapevolmente, con il “paracadute” della pensione o trovando rapidamente una occupazione più consona alle loro aspettative, ma molti altri sono usciti senza avere un porto sicuro dove approdare, consapevoli però della scelta fatta (il rapporto McKinsey riporta che il 36% dei lavoratori americani ha dichiarato di aver lasciato il proprio lavoro senza avere alcuna alternativa professionale).

Quello che è accaduto nel corso degli ultimi anni sembra destinato a ripetersi anche in questo e nei prossimi anni: una ricerca di Gallup del luglio 2021 rivela che il 48% dei lavoratori sta attivamente cercando alternative al proprio lavoro, mentre la ricerca McKinsey arriva a rappresentare addirittura il 58% impegnato in questa ricerca.

Il quadro sin qui delineato porta inevitabilmente a ragionare su come si stia ricostruendo il nuovo mercato del lavoro, costretto a tener conto di fenomeni prima poco considerati o addirittura non considerati, come quello delle dimissioni volontarie. Ciò che si sta verificando è che lavoro, territorio e famiglia dovranno essere sempre più “connessi” per consentire l’ottimizzazione del tempo da parte del cittadino-lavoratore: nuove forme e modelli contrattuali, organizzazione del lavoro flessibile, logistica aziendale in grado di andare incontro alle esigenze di minor mobilità, con la conseguenza di impatti positivi sugli spostamenti, sui volumi di traffico e, quindi, sulla sostenibilità ambientale.

Il tema più complesso riguarda il contesto economico del prossimo futuro nel quale si dovranno incrociare offerte di lavoro per figure sempre più specializzate con domande di figure che chiederanno contratti basati su più flessibilità e maggiore disponibilità di tempo libero. Su questo terreno si giocherà il nuovo modello di mercato del lavoro, ma probabilmente bisognerà aspettare del tempo prima di capire quali strade avranno preso nel nostro paese le imprese e la forza lavoro. Di sicuro un dato emerge: il “fattore lavoro” può riacquistare un un potere contrattuale che ha perso da molto tempo.



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