SISTINA 57
IL PROGETTO
Cultura

“Tornare cittadini”, libro
di Stefano Feltri

Sono 138 pagine, molto dense e stimolanti, quelle del libro “Tornare cittadini” di Stefano Feltri, nelle quali si muovono tutti gli interrogativi che caratterizzano la nostra epoca.

Si parte da una riflessione sul populismo e sul suo relativo fallimento per arrivare alla grande sfida del nostro tempo per l’egemonia mondiale con la Cina divenuta oramai la grande antagonista degli Stati Uniti.
Già in copertina Feltri scopre le carte: “ci vuole una nuova idea di cittadinanza per salvare le nostre democrazie”. Ed è interessante che in un periodo nel quale conta sola la finanza e la macroeconomia, si metta l’accento invece sul profilo civile di una società.


E’ infatti indubbio che tre deficit minano le radici della democrazia occidentale: quello di cultura politica, quello di cultura economica e quello di cultura sociale. E le accuse di declino dell’Occidente colgono in questi deficit punti di attacco credibili agli occhi delle classi dirigenti dei vari continenti.


La risposta populista però, per Feltri, ha mancato l’obiettivo: “è stata all’inizio di proporre politiche semplici per gestire problemi complessi, negare i problemi, contestare gli esperti, attaccare i media responsabili di creare un clima di allarme. Ma poi la realtà ha prevalso e ha costretto anche i governi più populisti a seguire, nelle direttrici di fondo, le stesse modalità di reazione degli altri”.
Populismo sconfitto? No, sostiene Feltri, ma ha mostrato i suoi limiti. E ricorda alcune delle sue caratteristiche: la protesta senza sbocchi tradizionali, il disagio, la crescita delle diseguaglianze.


L’analisi cita proficuamente le tesi, diverse fra loro, di vari studiosi, e propone alcune considerazioni che andrebbero sviluppate perché in esse vi sono alcuni problemi di fondo fino ad ora rimasti senza risposta. In primo luogo un quesito: se la globalizzazione ha, a sorpresa, stimolato proprio con i suoi intrecci globali nuove forme di nazionalismo.


A sostegno di questa ipotesi viene citata una ricerca promossa all’interno della Bocconi: “nei Paesi considerati – fra i quali l’Italia- si osserva un aumento delle importazioni dalla Cina e, contemporaneamente, un aumento dei voti per quei partiti che promettevano nazionalismo e protezionismo”.

Insomma gli strati sociali che si sentono più minacciati dalla nuova distribuzione del lavoro, vedi gli operai, per reazione al loro abbandono ai costi della globalizzazione da parte delle classi dirigenti, si spostano, si direbbe, a destra.


Qui si innesta una riflessione su quella deriva dei leader progressisti degli anni ’90 che ha privato spesso, in Italia ad esempio, il riformismo di una sua credibilità: “il cedimento al fascino della finanza e della ricchezza…dei leader progressisti da Gerhard Schroeder a Tony Blair, a Bill Clinton, tutti diventati milionari grazie alla esperienza politica, è stato a lungo stigmatizzato e ha sicuramente gettato i semi della rivolta populista.”


In aggiunta, diremmo noi, si evidenzia un’altra caratteristica di questo mondo politico: privilegiare i diritti civili, scelta giusta per l’autore, sulla attenzione a “interi blocchi sociali che, nei cambiamenti tumultuosi della globalizzazione del secolo scorso si trovarono all’improvviso privi di prospettive e di una identità collettiva”.


Potremmo aggiungere che in questa fase di cambiamento la sinistra italiana ha assecondato, quando non guidato, una sorta di delegittimazione delle forze sociali facendo prevalere una logica di autoreferenzialità che diveniva la brutta copia della convinzione presente nelle grandi forze politiche popolari della prima Repubblica che i temi generali del Paese fossero di pertinenza della politica. Si può ricordare a questo proposito come alla fine degli anni ’70 il passaggio del Pci dalla stagione della solidarietà nazionale all’opposizione si caratterizzò anche per una rivendicazione di egemonia sui temi sociali che mise in crisi il rapporto con i sindacati.


La “crisi” non è solo quella di scelte e comportamenti politici, ma anche crisi di idee: “per la prima volta da altre un trentennio la democrazia liberale deve confrontarsi con una vera alternativa, un sistema di valori e prassi che sostiene di poter raggiungere gli stessi obiettivi – benessere, felicità, protezione – seguendo un percorso radicalmente diverso”.


E in questo ragionamento si inserisce ovviamente la pretesa cinese di conquistare l’egemonia: “La Cina ha concentrato il potere costruendo un potere di mercato e di quello politico. Ha costruito un sistema a partito unico con limitatissime possibilità per i cittadini di partecipare al processo di selezione della classe dirigente…sul piano economico ha favorito lo sviluppo di campioni nazionali in ogni settore, ha perseguito l’egemonia industriale e tecnologica attraverso una sistematica distorsione di ogni regola di mercato…”. Non a caso il tallone d’Achille, potremmo sottolineare, della Cina che riguarda le fonti energetiche è oggi assai meno pericoloso con l’abbraccio verso la Russia di Putin, che in qualche modo conferma la tendenza a spostare l’asse globale verso Oriente.


L’analisi compiuta da Feltri nel suo libro è certamente assai più serrata e guidata da una logica più convincente di queste osservazioni sparse. Ma appare evidente il gap fra questa visione dei problemi che decideranno del futuro e l’approccio spesso propagandistico e privo di una sottostante cultura politica delle nostre classi dirigenti che si sono trasformate in un trentennio, a parere di chi scrive, da partiti a clan ristretti in grado al più di occupare il potere.

Il paradosso è che ogni forma di ribellione viene rapidamente tacitata ed inglobata. Producendo inevitabilmente buone forme di reazione ma con connotati spostati sempre più in una direzione conservatrice. Ed a tal proposito non dovrebbe essere estranea anche la condivisone con una politica europea che mostra segnali inequivocabili di mediocrità e di egoismi prevalenti su un comune destino da costruire, difendere e rendere popolare. Ma proprio questa situazione di confusione, impotenza, assenza di valori condivisi, può diventare terreno per una ricerca di approdi meno contingenti e rischiosi: se si abbandona lo schema “popolo contro elite” e si torna a percepire la società come terreno di scontro tra interessi contrapposti, appaiono all’improvviso nuovi spazi di azione politica.


“Abbandonare l’idea di popolo per riprendere quello di singoli individui che sono cittadini, ma anche consumatori, permette di recuperare leve per incidere sulla realtà…permette insomma di individuare obiettivi possibili”. L’autore non si dimentica che però le regole del gioco “sono state scritte in gran parte proprio dalle stesse grandi aziende che con il loro potere di lobbying riescono a deformare la democrazia in base alle loro esigenze”.


Ma qui aggiungiamo noi sta il ruolo di un nuovo riformismo, che sappia unire il primato di una politica autonoma dai grandi interessi ad una dialettica fra forze politiche e sociali in grado di non perdere mai di vista sia la realtà che le prospettive future.



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